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IL BARBIERE DI SIBERIA
(SIBIRSKIJ TSIRYUL' NIK)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 agosto 1999
 
di Nikita Michalkov, con Julia Ormond, Richard Harris, Oleg Menshikov, Aleksej Petrinko (Russia - Francia - Italia, 1999)
 

La leggerezza, quella dell'essere come quella dell'individuo, è sempre stata al centro del cinema di Nikita Mikhalkov: scivolare, con grazia e facilità dal sorriso alle lacrime, dipingere l'incostanza dell'uomo, la relatività sua e del tempo, quella della memoria, della verità presunta. Questo, per la cronaca, era il cinema dell'autore pudico e fremente, rigoroso e lirico di OBLOMOV e PARTITURA INCOMPIUTA, di CINQUE SERATE e URGA.

Qui non si tratta soltanto delle scelte ideologiche di un monumento in patria che si dichiara, pare, ultranazionalista se non addirittura zarista. Ma, appunto, di leggerezza: "Ho l'impressione di far sempre il medesimo, lunghissimo film. Un cinema guidato da una continua interrogazione, estetica ed esistenziale, sugli uomini, la lingua, la rivoluzione e l'arte russa". Dio sa se è lungo, IL BARBIERE DI SIBERIA: e se la sua interrogazione sulla natura dell'essere russo si è fatta ormai caricatura.

Raccontando sulla traccia di una sceneggiatura schematicamente ripetitiva il racconto di un'americana (Julia Ormond che ridacchia, chissà perché, in continuazione) che nel 1885 s'innamora di un cadetto dello Zar (un Oleg Menshikov che sembra aver perso tutta l'intrigante ambiguità di sole ingannatore) ma la cose girano fatalmente male non fosse che per il fatto di aver ovviamente scelto IL DOTTOR ZIVAGO come modello, non solo non ci risparmia nessuno dei cliché dell'accademia folcloristica casalinga; dalle sbornie di vodka ai bagni rinvigorenti nei fiumi ghiacciati, polke indiavolate a casa del granduca e giostre multicolori sullo sfondo delle torri del Cremlino. Ma dimostra un'assoluta incapacità di governare l'insopportabile tono farsesco con il quale ha deciso, stranamente, di governare buona parte della sua epopea.

Meglio avrebbe fatto ad attenersi alle regole di quel melodramma lirico che da sempre appartiene alla culture delle sue parti. Come nei venti minuti finali, con l'eroina che rincorre inutilmente le proprie illusioni fra le foreste che ingialliscono a vista d'occhio nell'autunno precoce della Siberia. Solo allora Michalkov sembra ricordarsi di essere stato un maestro della messa in scena: a quanti degli spettatori non siano ancora piombati in coma da overdose balalaika.


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